Home Edizioneed. Natale Renzo Chiesa “50 anni di ritratti della mia musica”

Renzo Chiesa “50 anni di ritratti della mia musica”

A cura di Monica Landro

Renzo Chiesa è uno dei più importanti fotografi di musica che abbiamo in Italia dagli anni ’60. Questo significa che lui ha la macchina fotografica in mano da molti anni e che di artisti e di musica ne ha immortalata tanta, nei sui scatti. Parliamo di nomi come Lucio Dalla, Giorgio Gaber, Paolo Conte. Anche sul fronte internazionale a lui si devono scatti importanti, come Jimi Hendrix e i Rolling Stones.

Parlare con lui è emozionante, già solo per questo. 

Ti sei avvicinato al mondo della fotografia perché volevi conoscere i cantanti o perché amavi la fotografia?
In realtà entrambe le cose. Ho sempre amato la fotografia, ma sono cresciuto in una famiglia di musicisti, quindi senz’altro l’interesse primario è stato la fotografia, ma la musica è sempre stata nel mio cuore. 

Hai sempre lavorato nel campo discografico o hai scattato anche in altri settori? 
In verità il lavoro svolto con la musica è il 30% del totale, ma avuto la fortuna che quella percentuale fosse la più importante, grazie ai nomi che ho fotografato. Il restante 70% è occupato da molti settori: turismo, festival culinari, chef internazionali. Certo però, la musica è quella che mi resta dentro, che fa battere il mio cuore e muove le mie emozioni. 

È meglio uno scatto tecnicamente perfetto o sbavato ma creativo?
Per me quello che conta è che lo scatto susciti un interesse, che la foto non sia banale. Se viene mossa e sfuocata ma dice qualcosa, ci siamo, ha colpito nel segno. Se non trasmette nessun sentimento, seppur tecnicamente perfetta, non va da nessuna parte.

Pellicola o digitale? 
Io sono cresciuto con la pellicola e solo quando l’avvento del digitale si è fatto prepotente, sono passato anche al digitale. Però la verità è che non c’è paragone tra i due. La pellicola vince 6-0 per la qualità, per il calore. Basti pensare che la pellicola ha una gelatina, che la luce attraversa a strati per entrare nell’obiettivo e quegli strati creano colore e spessore. Nel digitale questo non c’è. È come se tu fotografassi su uno specchio: è tutto piatto, non c’è questo senso della profondità. Capisco che per un giovane questa questione non abbia senso. Vede la foto bella e va bene, ma solo perché non conosce il concetto di profondità di un’immagine analogica. Va però sottolineato un aspetto: fotografando in analogico, può capitare che alcune cose tu le perdi perché magari c’è una parte troppo buia, che non esce. Invece con le nuove tecnologie tu fai la foto, ma poi la puoi reinventare, schiarire, scurire. La rendi più appetibile, bella. A volte fin troppo.

A proposito di luci: preferisci il bianco e nero o i colori? 
Bianco e nero sicuramente, perché è pieno di colori! Cromaticamente mi piace di più vedere una stampa in B/N che racchiude una vasta gamma di grigi e ti fa scoprire delle cose che a colore perdi. Con il colore, quello che fotografo, tu vedi. Con il B/N, tu interpreti.

“50 anni di ritratti della mia musica”, è questo il titolo del tuo libro, uscito di recente. Un’opera che racchiude più di 200 scatti. 

Chi e come avete selezionato le foto?
La selezione, totalmente fatta da me, nasce dal fatto che ho fotografato chi piaceva a me. Alcuni mancano solo perché non sono mai riuscito ad incrociarli. Qualcuno non c’è volutamente. 

Qual è la tua fotografia preferita nel libro e perché? 
Sarebbe facile dire la foto di copertina del disco Dalla, di Lucio, che mi ha portato fortuna e fama. Però ci sono altre foto che mi piacciono. Nel libro per esempio c’è quella del pianista Bill Evans: è una foto con tre scatti in uno. La ragione di questo è semplicemente legata ad un guasto tecnico. Continuavo a scattare sullo stesso fotogramma perché la pellicola si era sganciata. Oltre ad amarla perché è stata la mia prima foto di jazz, mi piace anche per il suo valore simbolico. Bill Evans è stato il primo ad usare la tecnica della sovraincisione nelle sue esecuzioni su disco, e alla fine, inconsapevolmente, l’ho fatto anche io. 

Questo non è solo un libro di scatti ben realizzati. Qui, sfogliando dagli anni ‘60 ad oggi, si “legge” una biografia, si coglie l’essenza, l’amore, l’evoluzione di un uomo: tu. 
Grazie! Nel libro ci sono io. Mi piace che ti sia arrivato. Questo infatti per me non è solo un libro fotografico, con gli scatti, il nome dell’artista e la data di esecuzione. Ho cercato, quando possibile, di fare scrivere ai protagonisti della foto una didascalia dell’immagine. Volevo un libro con piccole cose da leggere, un ricordo, un aneddoto. 

Qual è la cifra stilistica che ti caratterizza? Qualcosa che faccia dire: “Questo è uno scatto alla Renzo Chiesa”.
Io lavoro molto sul personaggio, sugli occhi, sulle espressioni, io voglio che il mio scatto salti fuori dalla pagina. Io voglio che chi sto fotografando sia lì con me, giochi con me, che mi segua. Altrimenti è uno scatto banale. Lo scatto alla Renzo Chiesa deve essere uno scatto che parla. Tu lo devi poter ascoltare.

Ti senti un fotografo che scatta agli artisti o un artista che scatta agli artisti? 
Tendenzialmente io sono un timido, ma con la macchina fotografica in mano, davanti a chiunque, cadono le barriere. La macchina fotografica mi amplifica. Solo per questo posso dire che siamo due artisti che si confrontano. 

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