A cura di Monica Camozzi
Foto di Simone Angarano
Quando Maxime Mbanda va a parlare nelle scuole, lo fa forte di una cosa che i ragazzi riconoscono subito, al di là delle parole: l’esempio. Un po’ gioca lo standing dello sportivo, del campione nazionale nella disciplina che pratica quotidianamente, il rugby. Ma tanto fa il valore, maturato, compreso e interiorizzato.
“Mio padre è quinto di dieci fratelli, unico ad aver lasciato il Congo seguendo i suoi sogni e laureandosi in medicina – racconta Maxime- Ha preso due specializzazioni e sta cercando di conseguire la sesta laurea”.
Però, il compito più difficile sul campo -non da rugby ma della vita- lo ha avuto mamma, che lo andava a ripescare ai tempi del liceo quando frequentazioni poco consigliabili lo avevano portato su una via sbagliata.
“Se non fosse stato per lei che veniva a prendermi per le orecchie e mi riportava sul campo di gioco, mi sarei perso su una strada che io trovavo divertente, ma che in realtà era pericolosa.
“Se qualcuno non ti aiuta a capire, negli anni dell’adolescenza è molto facile cadere in questi tranelli”.
Vuoi dire che lo sport ti ha salvato da percorsi insidiosi?
Quando sei molto giovane, soprattutto nel passaggio dalle medie alle superiori, incontri persone che trovi carismatiche perché la tua personalità non è ancora definita e per essere accettato dal cosiddetto branco fai determinate cose, senza nemmeno renderti conto che siano sbagliate. Lo sport mi ha consentito di staccarmi da quel divertimento distorto e di misurarmi con me stesso. Quando mi sono trovato con la maglia azzurra davanti a 80.000 persone ho capito che gli sforzi di mia madre avevano avuto senso.
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