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Mario Dice, l’uomo che amava le donne

A cura di Monica Camozzi e Giulia Brunello

Non sono un fautore del fluido o del genderless. Amo la donna, valorizzo la sua essenza  femminile, provocatrice, cacciatrice. Quando sceglie un abito, alla fine, deve sentirsi bella lei.

Mario Dice assume in sé la potenza del sogno, la capacità dello styling che ti fa intuire cosa andrà o meno sul mercato e quel guizzo di marketing appreso quando, appena ragazzino, volò a New York per lavorare alla Calvin Klein, digiuno di qualsiasi scuola di moda.

Soprattutto, avulso dalle leggi di mercato americane che inglobavano la creatività in una tassonomia del profitto. Ma il giovane Mario, figlio di un meccanico, che non poteva permettersi la costosissima Saint Martin School ma aveva il cromosoma del genio stilistico e l’intelligenza per capire come plasmarlo, avrebbe trovato il suo sentiero parallelo. L’universo gli ha fatto esplorare tutto: dal pragmatismo americano all’alchimia della couture romana, per arrivare al suo mentore e, infine, a sé stesso. 

Come ci sei finito a 14 anni da Calvin Klein?
Avevo mandato alcuni disegni a tre maison italiane, Krizia, Versace e Trussardi, per avere un feed back. Potevo fare davvero questo lavoro o era una illusione? Mia madre tagliava e cuciva ma non avevo fatto alcun scuola. Solo che non avevo specificato l’età. Nicola Trussardi mi aveva mandato a chiamare e poi, sopreso, non potendomi inserire in azienda aveva interpellato l’ufficio prodotto di Calvin Klein.

Voi italiani sognate, noi facciamo i soldi, così mi avevano detto. Amavano la mia mano e il mio pensiero creativo ma dovevo adeguarlo alle logiche della vendibilità”.

Ti è servito per il percorso successivo?
Assolutamente si,  ogni volta che disegnavo mi mandavano in sartoria e prendevo il tempo per capire insieme ai modellisti quanto tempo richiedeva la realizzazione del capo. Lì ho compreso la dinamica vendibile-non vendibile. 

E poi sei finito nel mondo onirico di Sorelle Fontana…
Non solo, anche Gattinoni! Ecco, lì eravamo all’esatto opposto. Non c’era marketing, non c’erano numeri, libertà assoluta. Da Gattinoni seguivo sia la couture con Guillelmo Mariotto sia le seconde linee. Lui arrivava a lavorare alle 4 del mattino, pura creatività senza vincoli. 

Come hai mediato fra l’alfa e l’omega?
Da Trussardi, quando ho incontrato il direttore creativo Milan Vukmirovic, a cui devo quello che sono. Lui aveva gusto, era uno stylist bravissimo, direttore di Officiel, creatore del concept store Colette. 

Vukmirovic mi ha insegnato a usare le mie doti non solo nel disegno, ma per concepire il prodotto. L’ottica dello stylist gli consentiva di anticipare le tendenze.

Perciò si può affrontare il mercato conservando la poesia…
Ciò che faccio uscire in passerella è progettato anche per gli editoriali, non realizzo quasi mai un prodotto che poi non vada in produzione. Altrimenti non viene presentato alla stampa. Noi produciamo fino alla ttaglia 52. Il nostro core business sono Medio Oriente, Russia, America. 

Il 12 giugno è uscita una collezione in pelle di Oshi, un brand nuovo. Mi piace creare nuovi progetti-prodotti non ancora sfruttati dal sistema.

Hai dedicato una collezione a Gabriella Ferri. Un personaggio che nessuno cita mai. Perché proprio lei?
In questi 31 anni di carriera ho avuto modo di lavorare con grandi del teatro, del cinema, non solo della moda. Ci sono artisti che amo nel loro tormento, tirano fuori l’amore dal dolore e lei era così. Amava mettere il punto vita in primo piano, nascondeva la sua fragilità.  Tutti se la ricordano per come era diventata dopo, ma io la ho presente in taglia 40 con il caschetto molto prima di Raffaella Carrà 

Disegni ancora per il teatro?
Sto realizzando la Medea a Sofia e la Tosca a Salerno. La regia è di Marco Gandini, assistente di Zeffirelli.

Quale donna sogneresti di vestire?
In Italia non ne trovo. Qui spesso gli stylist si impongono sulla celebrity per portare avanti dei brand, ma si vede che a volte i vestiti non donano, non sono idonei. Le cantanti italiane non ascoltano, le americane usano costumi, non abiti. Bisogna che siano culturalmente pronte, non scelgono loro. Chi paga, le veste. Ho vestito Zendaya prima che diventasse top, ma ora è ovunque. 

Kate Middleton ha lo spessore che cerco, ha vestito Mc Queen ma lo ha fatto suo.

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