Il buonismo della casa cinematografica dà vita a prodotti con una sempre più scarsa ed evidente qualità
A cura di Simone Di Matteo
C’erano una volta principesse da salvare, draghi da cui fuggire, principi valorosi da poter sposare e streghe maligne da cui non doversi lasciar abbindolare. Oggi, invece, esistono solamente canoni fintamente rivoluzionari da rispettare, una platea dormiente da accontentare, uno spirito critico da affievolire e un consenso da cui non doversi mai allontanare. Un po’ quel che ci dimostra La Sirenetta di Rob Marshall, remake dell’omonimo film d’animazione del 1989 basato sulla celebre favola del 1837 scritta dal danese Hans Christian Andersen ed ennesimo prodotto della propaganda del perbenismo ad ogni costo che è approdato sul grande schermo non più di qualche settimana fa.
Da diversi anni, The Walt Disney Company, evidentemente sprovvista di sceneggiatori e produttori di qualità capaci di ideare progetti rilevanti, è alle prese con la (ri)trasposizione cinematografica di pellicole già distribuite secondo quelle che sono le norme dell’inviolabile politically correct, seppur con scarsi ed evidenti risultati. Tranne che per quelli al box office, s’intende, dopotutto, si sa, le ovvietà fanno gola a chiunque!
Basti pensare a Maleficent, dove non ritroviamo più la strega temibile e spietata, bensì una donna logorata dall’amore e dal rancore che si rifà non poco a quell’immaginario di donna che si condanna con forza al giorno d’oggi. Oppure a Crudelia De Mon, in cui l’indomita imprenditrice innamorata di pellicce autentiche viene sostituita da una ragazzina impacciata il cui carattere viene plasmato dalla sua mentore e che niente ha in comune con l’idea di “donna che si è fatta da sola” che si cerca di vendere al pubblico. O ancora a quell’infinità di operazioni messe in atto in nome di una “cultura della cancellazione” che lascia quasi l’impressione, dietro il falso mito dell’inclusione, di voler sfuggire a chissà quali responsabilità. Ciò nonostante, è così che arriviamo alla Ariel di Halle Bailey.
Sullo stra-abusato altare dell’empowerment femminista ogni logica viene sacrificata. Ariel e le sue sei sorelle consanguinee costituiscono un mix di etnie che nemmeno nella città più cosmopolita si ravviserebbe. Sono figlie di una sola madre o di madri differenti?! Poco importa perché, in fondo, siamo comunque tutti uguali. Al contrario del classico intreccio di una favola, in un brio di voluta ma mancata innovazione, la protagonista non è una principessa smarrita a cui occorre aiuto, ma un’eroina che si salva da sola e che non ha bisogno del prode Eric. Piuttosto, farebbe bene a salvarsi finanche da lui dato che qui viene raffigurato quasi fosse un pesce senza lisca, al pari di quegli uomini senza pa**e che ci capita di incontrare quotidianamente. Ma questo, purtroppo, non accade. Anzi, il tutto si riduce al classico lieto fine in cui i due, folgorati da un improvviso amore, convolano a nozze. Sebastian, poi, non ha nulla a che vedere con il divertente granchio al quale eravamo abituati.
Sorvolando sulla grafica che lascia alquanto a desiderare, con la voce di Mahmood assomiglia di più ad una trasfigurazione “marina” di Kermit la rana dei Muppet che, ascoltandolo cantare In fondo al Mar, mi ha fatto realmente venir voglia di tuffarmi in un oceano e non essere più ripescato! Per non parlare di Ursula, la cui figura di cattiva più temuta dei mari, al di là dell’impeccabile interpretazione di Melissa McCarthy, è stata ridotta a quella di urlatrice circense che pubblicizza pozioni per perdere peso. Roba che farebbe invidia persino a Wanna Marchi! Per carità, l’atteggiamento della Disney non è una novità. Tuttavia, se la pellicola aveva tutte le carte in regola per essere una concreta opportunità per fare la differenza, alla fine, ci ha dato prova di essere solamente l’ennesima occasione mancata!